Troppe volte i Cacciatori di Viqueria hanno fatto ritorno alla propria Città grevi di sangue e di morte, ma spogli dei propri ricordi. All’alba di una tiepida mattina d’inverno, Petra Dal Verme decide di vergare per sé stessa i propri pensieri e le proprie avventure, per non soccombere alla maledizione della memoria. 
Questo è il suo diario.
Il mio corpo alla Caccia, la mia anima al Dogma, il mio cuore alla mia Famiglia.

Scrivo per non dimenticare.

“Quale profumo migliore per un matrimonio, della carne dell’eresia che brucia?”
Le campane del Duomo suonavano a festa e gli occhi azzurri dell’Inquisitore Alessandro correvano senza scampo su tutti noi presenti. Alle sue spalle, alto sulla pira, Goffredo Dattili bruciava. 
Ho abbassato lo sguardo, snocciolando un’antica preghiera senza voce. Un uomo avventato, sfacciato, smodato, ma pur sempre un uomo. Possa trovare la pace.
Ma oggi, oggi è un giorno di festa, perché le nobili Famiglie di Viqueria si riuniscono per festeggiare Amelia Dal Verme e Guglielmo Gregorio Dal Pozzo, sposi promessi. 
Dall’ultima Caccia hanno fatto ritorno cambiati, insieme.  Non ho mai pensato che mia cugina, così selvatica e indomabile, potesse cedere a un sentimento, né mai ho dubitato, per quanto acerba e inesperta del mondo io possa considerarmi, delle più concrete motivazioni di un vincolo matrimoniale. Comando. Guadagno. Potere. Ancora più chiara è la mia opinione in proposito – finché tutti i benefici saranno per i Dal Verme, Guglielmo Dal Pozzo sarà il benvenuto nella mia Famiglia.

“Petra”la voce sicura di Ludovico, il mio Capofamiglia, mi ha richiamata al presente: un’ampia sala gremita di nobili invitati, un ricco banchetto prima di celebrare le promesse nuziali. “Con me”.
Ho trascorso un ultimo momento ad osservare Amelia e Guglielmo conversare tra loro. Una luce diversa anima i loro occhi, quando i loro sguardi si incontrano. Stretta nel mio abito lungo e con un calice di vino tra le dita, pensare all’amore mi ha fatta sentire a disagio. Ho sentito all’improvviso la mancanza della mia cotta di maglia. Deglutendo un lungo sorso di rosso, ho arricciato le labbra, infastidita dalla punta appena acida sulla lingua – e sentito ancor di più la mancanza di una buona birra.
Essere l’ombra silenziosa di Ludovico mi ha permesso ancora una volta di osservare con meraviglia quanto il mio Capofamiglia sia un abile conversatore, capace di far brillare la supremazia dei Dal Verme anche nel difficile gioco della diplomazia. 

Ci siamo mossi tra gli invitati, scambiando qualche parola con alcuni lontani cugini giunti a Viqueria per la lieta occasione. Abbiamo avuto modo di congratularci con Amelia e Guglielmo e osservare i preziosi gioielli a loro donati dalla figlia del Siniscalco, alla presenza della stessa eterea dama – e per un lungo momento, ho sentito la mancanza della mia spada. 
Ho ascoltato Ludovico conversare con il Console di Viqueria, Goffredo Poggi e ricavare da lui la conferma di cui eravamo alla ricerca: il Siniscalco non desidera questa unione. Il dettaglio finale che consolida i nostri sospetti.
Dividi et impera. 

Il mio Capofamiglia mi ha sospinta con delicatezza verso uno dei più illustri invitati, un emissario del Dogma arrivato da Roma. “È il tuo momento” mi ha detto Ludovico, con fare quasi paterno. Ho annuito, mentre lui con un ultimo cenno si è allontanato per versarsi un bicchiere di vino.
Ho promesso ad Augusto Onofrio Mercalli, invitato dal Vescovo, che sarò strumento della giustizia del Dogma, e che manterrò la mia promessa, sul mio onore e sulla mia spada. Ho giurato. Se fallirò, pagherò con la vita.
Il mio pensiero è corso al mattino, al rogo ai piedi del Duomo e a quei gelidi occhi azzurri. Ho ricordato un’altra pira ancora, tempo fa, e il movimento improvviso che aveva rivelato per un istante l’avambraccio del Supremo Inquisitore. Le cicatrici di una pelle baciata dal fuoco.
Marchiata. Presto o tardi dovrò confessarlo a qualcuno. Perché non sei al matrimonio, Alessandro? Vorrei soltanto non essere certa di ciò che ho visto. 
È stato allora che si è scatenato l’Inferno.
 

Ancora adesso, a scriverne, i miei ricordi sono confusi. Ludovico è caduto a terra, improvvisamente pallido e privo di forze. Come lui si è accasciato Eric Dal Pozzo, Capofamiglia dello sposo. Ricordo grida, la ricerca disperata di un cerusico, il mio tentativo di raggiungere il piccolo cerchio di invitati stretti accanto al mio Capofamiglia. Le mani benedette di uno dei nostri lontani cugini sono riuscite a salvare Ludovico, ma non hanno potuto nulla per Eric. 
Mentre osservavo il colore tornare lentamente sul viso del mio Capofamiglia, mi sono concentrata sul ritmo sottile del suo respiro, che a poco a poco si faceva nuovamente regolare.
Chi? Attorno a noi, qualcuno ha mosso accuse contro il – fresco di nomina – Capofamiglia Dattili, reo di aver introdotto al banchetto una bottiglia di vino avvelenata. Nelle sue tasche sono stati ritrovati veleno e gioielli di elfica fattura. Perché? Credo che soltanto l’intervento del Vescovo, che con le sue divine arti ne ha confermato l’innocenza, abbia salvato i Dattili dal massacro. Lentamente, le accuse si sono spostate sui servitori presenti alla festa, improvvisamente e convenientemente scomparsi. Come? Tuttavia, ogni ipotesi era proferita da bocche sempre più confuse, sempre meno sicure. 

Oggi, oggi doveva essere un giorno di festa, ma quel che ci resta è un giorno di morte.
Un Capofamiglia arso sul rogo del peccato.
Un Capofamiglia assassinato tra le mura della propria Città. 
Un Capofamiglia che ha fatto ritorno dall’abbraccio avvelenato della morte, ma segnato per sempre dal suo tocco.
Nessun matrimonio è stato celebrato.
Ho lasciato scorrere lo sguardo sulla sala ancora gremita, alla ricerca della figura del Siniscalco.
Dividi et impera.
Petra dal Verme

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