La richiesta di aiuto da parte dei Nobili Cacciatori di Torino ci aveva turbato. Nonostante i nobili torinesi non potessero sperare di competere con noi per genio tattico e militare, si trattava pur sempre di Nobili Cacciatori. Il loro sangue andava protetto, così come la città di Torino. Una richiesta ufficiale richiedeva molta umiltà ed un apprezzabile tentativo di mettere da parte l’orgoglio cittadino in favore di un bene superiore.

Come portavoce dei Trivulzio risposi immediatamente ai Ghislieri e ai Decurioni torinesi per assicurare loro che, in nome del Dogma, avremmo marciato e combattuto al loro fianco. Pochi giorni dopo fummo sorpresi, nel mezzo dei preparativi per la spedizione, da una lettera dell’Inquisitore Supremo. Ci chiedeva di prestare molta attenzione alle famiglie ghibelline della città poiché sospette di eresia. L’ultima cosa che serviva, prima di una battaglia di tale portata, era doversi preoccupare dei propri alleati. Decisi dunque che, una volta giunto a Torino, avrei preso il controllo delle operazioni di Caccia per evitare follie eretiche che avrebbero potuto rendere vano lo sforzo bellico.

Durante il viaggio mi unii agli inviati delle altre famiglie di Milano, Nobili Cacciatori la cui potenza e purezza di cuore avevo avuto modo di testare durante le mie precedenti missioni. Vedere volti noti mi tranquillizzò, almeno non avrei dovuto preoccuparmi di eresie dai miei concittadini. Il viaggio fu lungo ma privo di problemi. Sarebbe stato uno spreco dover perdere buoni uomini, forti e con una famiglia ad aspettarli, prima ancora di essere arrivati a Torino.

Giunti in città notammo la visibile preoccupazione dei suoi abitanti e della nobiltà tutta. Non sarebbe stato facile trionfare contro un nemico così potente e le sue orde di non morti ma, con il genio dei Nobili Cacciatori di Milano, la battaglia sarebbe stata molto diversa.

Dama Armistice, nella sua immensa saggezza, aveva disposto l’invio di Machina in soccorso ai nobili torinesi. Conoscevo bene quel Forgiato, la cui prodezza in battaglia mi aveva salvato la vita numerose volte, e fui lieto di vederlo nel mio gruppo di caccia. Nonostante qualche vana resistenza da parte di un Savoia, che portava il nome di Francesco Luca, in poco tempo l’evidente superiorità milanese fu riconosciuta e il sottoscritto nominato Capocaccia.

Giunti in prossimità di Chivasso, disposi la mia fanteria in cima alla collina. Sarei stato in prima fila per tutta la battaglia e avrei dato il buon esempio ai miei stessi uomini. Dietro di noi sarebbero state poste le barricate, abbastanza pericolose da sterminare chiunque vi ci fosse corso incontro. Quando i miei uomini, dubbiosi, mi chiesero per quale motivo non ci fossimo posti dietro le barriere, bensì davanti, risposi che per i Trivulzio non esistesse difesa o ritirata ma soltanto l’avanzata schiacciante. Non avremmo ceduto terreno e non avremmo fatto un solo passo indietro.

Gli abomini giunsero e fu terribile. Orde di cavalieri minotauri, non morti a perdita d’occhio e oscuri cultisti si abbatterono sulle nostre difese e sui miei uomini. Nel cielo comparivano meteore di fuoco, alcune distrutte da una fenice, altre mortali per i nostri uomini. Io stesso dovetti ammettere la potenza di tali colpi. Le truppe di fanteria, comandate da me e da Giovannino Decurioni, bloccarono l’avanzata nemica mentre Machina e Francesco Luca faceva piovere su di loro pietre e frecce. Nel frattempo, la cavalleria di Basiliscus Decurioni aggirava il nemico per colpirlo sul fianco e alle spalle. Li avremmo chiusi in una tenaglia, guadagnandoci la vittoria. La battaglia ci vide vincitori, perché respingemmo il nemico con delle perdite davvero misere, ma la guerra era ancora lunga. Il Grande Toro si teletrasportò alle nostre spalle, continuando la sua corsa verso Torino. Mi domandai cosa avremmo potuto fare contro un nemico capace di sparire e riapparire alle nostre spalle, ma quello non era il tempo dei dubbi.

Venne allestito un portale per la città di Torino, cosa che mise davvero alla prova la mia soglia di collaborazione. Non sapevo in che modo venissero condotte le Cacce nella città di Torino ma, per un giorno, avevo visto fin troppa magia. Mio malgrado accettai di utilizzare un mezzo tanto strano, giurando a me stesso che mi sarei confessato nel momento esatto in cui avessi rimesso piede a Milano. A poco valse aver guadagnato quel vantaggio rispetto al Grande Toro, poiché le sue abilità illusorie erano molto potenti. Dopo esser tornati in città, fummo catturati in un’illusione. Dopo diverse prove, alcune delle quali misero alla prova il nostro cuore, ebbi una visione di un uomo dagli occhi dorati che parlava con un toro dalla pelliccia d’oro e gli occhi viola. Quell’essere disse all’animale che il tempo fosse giunto e che lui fosse pronto. Possibile che il Grande Toro non fosse altro che uno strumento, o un diversivo, di qualcosa di più grande?

Quando la visione terminò, ci risvegliammo in città. Senza perderci in troppe chiacchiere terminammo i preparativi per la difesa e scendemmo in battaglia contro il Grande Toro. I nostri colpi faticavano a penetrare la sua dura scorza e il suo muggito avrebbe stordito anche i sordi. Quando si fu stancato di giocare con noi, abbandonò la sua forma gigantesca, che avrebbe potuto rivaleggiare con una montagna, in favore di un aspetto umanoide. Evocò poi Lich e non morti di ogni sorta. Diversi corpi di Nobili Cacciatori, che riposavano nei cimiteri di Torino, vennero profanati e lanciati contro di noi. Restituire loro la pace fu un compito facile, poiché erano solo carne da macello mandata contro di noi per dividerci. La vicenda non finì con la battaglia, perché i Nobili Cacciatori di Torino ebbero la netta sensazione che quello fosse solo l’inizio.

La parte difficile venne in seguito, al momento di spartirsi il bottino di guerra ottenuto con quella dura battaglia e il sangue di centinaia di soldati. I messi delle città si sedettero al tavolo con gli inviati delle nobili famiglie torinesi. Per quello che mi riguardava l’obiettivo non poteva essere che uno soltanto: portarmi a casa il meno empio tra gli artefatti, qualche trofeo di cui far spettacolo a Milano e assicurarmi che gli Archinto e i Savoia si mettessero in cattiva luce, in modo da denunciarli appena possibile. Non avevo dimenticato le parole vergate dal Supremo Inquisitore, che chiedevano a noi Guelfi di tutta Italia di tenere gli occhi ben aperti. Avevo già qualche informazione sui Savoia dovuta alla mia caccia con uno di loro ma, se fossi riuscito a mettere entrambe le famiglie in condizione di pronunciare eresie, il mio compito sarebbe stato completo.

Devo ammettere che non mi aspettavo che i Nobili Cacciatori di Torino portassero le loro divisioni politiche al tavolo. Sebbene non fossero un mistero, mostrare una città unita e compatta in presenza dei Messi delle altre città avrebbe dato un’immagine migliore. Un’ora in quel Consiglio e qualunque nemico di Torino avrebbe capito quali tasti premere per spezzare la Città. Tuttavia avevo la mia agenda da portare avanti e così presi subito la parola. Suggerii di affidare la Lancia alla città di Milano e i due frammenti dell’anima tra Venezia e Napoli. Una volta ottenuto che gli Artefatti meno oscuri fossero portati il più lontano possibile da Torino, era il momento di passare all’insinuazione. 

Il Messo di Pavia fece un tentativo di portarsi a casa tutti gli Artefatti ma, con la saggezza del Consiglio, rispedimmo al mittente la proposta. Fu dopo quell’episodio che gli Archinto e i Savoia, attraverso le voci di Alfio Cavassa e Filippo Corvato, reclamarono la Corona a Sette Punte. Sarei stato più fortunato solo nel caso avessero scelto il Sangue Nero. Elogiai il loro “coraggio” e la loro “dedizione” nel voler andare in giro con un artefatto che li avrebbe resi ampiamente ingombranti al momento di camminare per strada. Sembrò tuttavia che portare le corna non fosse per loro un problema. Il fatto che non fossero preoccupati della cosa mi inquietò tremendamente e mi segnai di farne menzione con l’Inquisitore Supremo.

Cambiammo momentaneamente discorso, poichè sapevo che anche la statua del Grande Toro, per ordine del Dogma, doveva essere affidata a qualcuno di fidato e facilmente controllabile. Chiesi cosa intendessero farne e, in un primo momento, tutti furono concordi nel volersene sbarazzare. Quando avanzai la proposta che Milano potesse aiutarli con lo “smaltimento” del corpo del loro nemico, in modo che non rimanesse a terrorizzare i poveri cittadini di Milano, incontrai resistenza. Riuscii ad ottenere che la statua, indistruttibile ma spostabile, venisse ricollocata in un’abbazia del Dogma. Conscio di aver fatto il mio lavoro anche in questo caso, passammo agli altri artefatti. Sfruttando la rivalità tra i ghibellini e i guelfi della città di Torino, feci in modo di mandare il Sangue Nero a Pavia, il Passo dell’Ombra a Parma e la Pietra Dorata alla città di Rivoli. Il Consiglio si sciolse dopo che il trattato venne firmato. Ogni cacciatore avrebbe avuto diritto ai suoi trofei e le armi sarebbero state ripartite in modo da sostenere le città in difficoltà.

Prima di partire per il rientro a Milano scrissi la mia lettera al Supremo Inquisitore, in modo da narrargli quanto ottenuto e la mia preoccupazione per il comportamento delle famiglie ghibelline. Da quel momento considerai il mio incarico concluso e volsi il cavallo verso Milano.

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